domenica 16 giugno 2013

A chi che no ghe piase el vin...

Due weekend fa sono stata a Venezia.
Venezia, inutile girarci intorno, Venezia è qualcosa che ti entra dentro, come l'acqua alta negli androni, come l'odore di laguna appena arrivi, come quella vista abbagliante appena scendi gli scalini di S. Lucia.
Fino a qualche anno fa Venezia mi metteva soggezione. L'avevo conosciuta in circostanze strane e ogni volta che il pensiero tornava lì mi assaliva un'ondata di tristezza, come di un appuntamento mancato, di parole incomprese, di occasione persa. Avete presente quando riguardate delle foto in cui siete ritratti in posti meravigliosi, ma a voi viene solo il magone perché vi ricordate benissimo di quanto - nonostante tutto - voi foste infelici? Nove su dieci di fianco a voi nella foto c'è un'altra persona. E mentre la foto vi  immortala, non lo rivelerete mai a nessuno, ma ricordate perfettamente che stavate pensando "vorrei essere qui, ma non con te".

Poi la vita fa strani giri, passa qualche anno, e con quell'ironia che solo il destino sa avere, non faccio quasi in tempo a incontrare un uomo di cui riesco a innamorarmi follemente nel giro di dieci minuti, che lui, dopo una settimana scarsa di frequentazione, se ne esce con: "ti porto a Venezia".
Ecco, fantastico, mi porta a Venezia.
Vorrei ridere. Vorrei piangere. Vorrei dirgli che non sa in che casino si sta cacciando, che per me Venezia è molto più di quello che pensa, che non ne ha idea, che io a Venezia mi porto addosso un carico che levati.
E invece, mentre nello stomaco non ho le farfalle ma un'intera orchestra che mi trapassa le budella al ritmo del Rondò, io sorrido, faccio quella che va a Venezia un weekend sì e l'altro pure e rispondo "perché no?".

Poi alla fine in tre giorni siamo usciti di casa un'unica volta, sabato sera, per andare a cena.
Il resto del tempo l'abbiamo passato in 7 metri quadri.
Un'intera casa a disposizione, un salotto che si affaccia sul canale e sulla statua del Colleoni, tre camere da letto tra cui scegliere, ma noi no, sul ballatoio del soppalco, dormendo (dormendo?) su un divano che, aperto, diventa un futon.
Venezia fuori, e noi lì, sul futon, nutrendoci di Grancereali, crostini e vino rosso.
Non necessariamente in quest'ordine.
Però è così che ho fatto pace con Venezia.
Mi sono sentita accolta, protetta, intrigata e felice. Mi sono sentita bella.
Bella negli occhi di lui, bella nel riflesso della laguna, bella nell'eco delle calli e nel bicchiere in cui l'oste versa un'ombra ancora, prima che la notte ci inghiottisca.
Ed è così che Venezia mi ha perdonata.
Per non averla capita, per non averla voluta, o forse per averla voluta troppo, vai a sapere.

Fatto sta che da allora, ogni volta che ci torno - e ci torno spesso - mi mette di buonumore. Così, senza motivo.
Ormai mi è chiaro che Venezia è una signora elegante, affascinante, spesso malinconica, di quella malinconia di chi ha vissuto davvero, di chi ha dei segreti e non li svela. Venezia è uno scherzo. Qualcosa che non dovrebbe esistere. Una città costruita sull'acqua. "Ma davvero?" Sì. Davvero.

Mi piace fare il tragitto dalla stazione a casa a piedi: mi piace il labirinto delle calli che all'improvviso si aprono in campi e campielli che ti tolgono il fiato. Mi piace sbirciare attraverso le finestre delle case e nei bacari, spesso pieni di accozzaglie che hanno un senso tutto loro, e io vorrei portarmene a casa la metà, ché nella mia mente ho già trovato un posto a ognuno, fra il salotto, la cucina e la camera da letto. Ma soprattutto mi piace origliare i discorsi dei veneziani, che anche se stan parlando di IMU a me sembra poesia. Che poi, io non gradisco la  blasfemia, ma la bestemmia in veneziano - diciamocelo - è arte pura.

Poi c'è questa cosa che mi capita a Venezia (ok, mi capita un pò dappertutto, ma a Venezia molto di più). Cioè che ovunque io vada, qualsiasi posto io visiti, palazzi, case, negozi, spazi espositivi, mi ritrovo sempre a immaginarmi di vivere lì.
In questo post avrei voluto parlare di questo: di come vado a vedere le mostre ma in realtà quel che davvero mi rapisce sono i contenitori delle mostre, di come mi aggiro per i saloni di Palazzo Cavalli Franchetti pensando "qui farei la cucina, qui la stanza degli ospiti, qui il bagno della camera padronale con affaccio privato sul parco, qui un'ampia zona giorno (of course!)". Di come ai vernissage io mi eclisso per fotografare i particolari delle stanze, i soffitti, una porta, un pezzo di muro.

no, davvero, ti lascio l'opera d'arte, ma fammi vivere qui

Ma con Venezia è così: tu ci provi, e alla fine comanda lei.
E' così da quel weekend di marzo di tre anni fa.
Che quando sono tornata la gente mi domandava: e allora? Bella, Venezia, eh?
E io avrei tanto voluto rispondere: e chi l'ha vista Venezia?
Invece dicevo: stupenda, mi sono innamorata.
Ed era vero.

giovedì 2 maggio 2013

E anche questo Salone del Mobile...

E' finito? Saloni, Presaloni, Fuorisaloni, tutto?
Abbiamo smesso di parlarne?
Abbiamo letto fino all'ultimo rigurgito di design, nuove tendenze e cosa-sarà-di-noi nel prossimo futuro?
Abbiamo detto ciao a Fabio Novembre?

Oddio, non ne sono così certa, dato che un paio di siti mi informano non più tardi di 24 minuti fa che Kartell ha realizzato una nuova linea di vasi decorativi in PMMA trasparente, battezzata I SHINE U SHINE HE SHINE SHE SHINE
Complimenti per il nome.

Non bazzico spesso dalle parti dei Navigli, per cui sarei anche curiosa di sapere se abbiamo chiuso con le rane pensili





che è bastato un attimo ed è stato subito Natale 2005, con i Babbi Natale appesi ai balconi come orde di piccoli clochard intraprendenti, che ora come allora continuano a suscitarmi solo del gran ribrezzo.

Dunque, dicevamo: Salone.
La mia attenzione è stata come al solito catalizzata da un luogo che mi affascina sempre tanto: il bagno.

Le proposte per il bagno vanno più o meno tutte nella direzione di creare un ambiente che sia sempre meno di servizio e lasci sempre più spazio alla cura di sé in senso lato: un'idea di benessere che alimenta corpo e spirito.
Una piccola spa personale.
Tutto, dai colori, agli spazi, ai materiali, agli accessori, sembra voler parlare all'emotività, più che alla razionalità.
Il bagno emotivo. E con questa mi sono guadagnata il "ma-ci-sei-o-ci-fai" di questa PE 2013.

Però ditemi voi se non ho ragione:

Novello - collezione Olympia

Novello - collezione Rexa
Gessi Milano

Innanzitutto io ve lo dico: se non avete uno chalet con vista sulle cime innevate del Monte Bianco e nemmeno una megavilla con vetrata ad accesso diretto al vostro immenso giardino disseminato di piante secolari, ecco, l'effetto non è proprio proprio lo stesso.
Poi, un'altra cosa: io trovo che la vasca da bagno freestanding sia una delle cose più belle in assoluto, darei un rene per immergermi in un bubble bath zuccheroso al centro della mia salle de bain, potrei seriamente chiedere il telelavoro per passare le ore in un posto del genere: laptop, telefono, wireless a palla, impianto stereo e qualche snack per le pause, uscirei solo per le riunioni e le presentazioni dai clienti ("hey, ma cosa ti è successo alle mani?" "ma nulla, ho perso quattro strati di pelle, sai, rimango immersa 10 ore al giorno").
Eppure.
Lo sapete voi di quanto spazio necessita una roba del genere?
Io sì, perché in un passato piuttosto recente mi sono presa una sbandata per la Po di Boffi
Boffi - Po

Praticamente servono minimo 40mq di superficie, altrimenti non ha senso.
Al giorno d'oggi, poi, non so voi, ma qui a Milano 40mq sono spesso la misura di un bilocale, per dire.
Anche volendo dormirci dentro, che secondo me proprio scomoda non è, alla fine non ne vale la pena.
Insomma, prima o poi dovrò arrendermi all'evidenza che la liaison fra me e la freestanding non s'ha da fare. 


E in mezzo a tutto questo sfarzo di spazi ed emotività, arriva lui, Mr. Antonio Lupi, Nostro Signore del Lavello, a razionalizzare la faccenda, e ci presenta un innovativo sistema per il bagno in cui tutto è a scomparsa, celato all'interno di nicchie che vengono aperte e chiuse a seconda della necessità





Razionalità e funzionalità allo stato puro: lo spazio non è più protagonista, al contrario lascia la scena al movimento e alla trasformazione. 
Rimane l'essenziale: i sanitari e le pareti. Tutto il resto, dal porta sapone al porta scopino, dai porta spazzolino ai ganci per appendere asciugamani e accappatoi, alimenta un gioco di oggetti che svela gli elementi e li nasconde, dando origine a forme e rapporti di spazio sempre nuovi.
Un gioco, appunto. Divertente, anche.
Con grande originalità, il sistema si chiama Sesamo, e io già mi vedo uscire dalla doccia con l'asciugamano in testa a mò di turbante ed esclamare "Apriti, rotolo!"

Però, Antonio, ecco, io te la vorrei dire una cosa, da parte di tutte noi.
Noi donne moderne, noi che abbiamo una carriera, una famiglia, delle amiche, lo shopping, l'aperitivo delle 7, il corso di pilates e il telefono come protesi naturale. 
Noi che siamo Azzurre di multitasking.
Noi che mentre si twitta avviamo la lavatrice, spazzoliamo il gatto, mescoliamo le zucchine sul fornello. Noi che non ci scandalizziamo se, mentre discutiamo l'ultimo gossip con l'amica del cuore, sentiamo lo sciacquone che viene tirato dall'altra parte del filo, perché è complicità femminile anche quella.
Quindi vedi, Antonio, che già la vita è complicata di suo, e allora io non voglio giocare a Memory coi tasselli per ricordarmi dove sta la carta igienica.
Ma soprattutto ti svelo un segreto: mentre sono al telefono con l'amica adorata ma logorroica che tanto parla solo lei, io spesso mi lavo i denti, mi metto la crema idratante e mi levo lo smalto sbeccato dalle unghie. Per questo io ho bisogno che sia tutto già lì a portata di mano. Carta igienica compresa. Perché se a quel punto mi scappa anche la pipì io davvero temo di non avere abbastanza mani per giocare ad Ali Babà e i 40 ladroni.


mercoledì 10 aprile 2013

Salone, Fuorisalone e io già mi perdo

Lunedì è cominciato il Salone Internazionale del Mobile.
C'è da dire che se i Milanesi sono amanti delle novità, Milano di fatto è tradizionalista, e come ogni anno la città meneghina accoglie l'Evento of the Year nel più rigoroso rispetto delle  tradizioni: con la Pioggia da Salone e lo Sciopero da Salone, che insieme creano un mix esplosivo per il quale solitamente lancio anatemi a ogni angolo di strada e invento improperi sfavillanti.

Grazioso ma non trascurabile corollario dell'irriducibile Pioggia da Salone è che inevitabilmente porta noi gentili fanciulle ad aggirarci per Saloni, Satelliti e Fuorisaloni con gli altrettanto classici Capellidimerda da Salone.
Personalmente, per fare qualcosa di nuovo stasera ho intenzione di presentarmi ai party del Fuorisalone coi capelli sporchi, che per l'occasione definirò didesign.
[mi trovate al Bar Basso dalle 23 - sarò quella coi capellidimerda]

Quest'anno pare che per essere cool (ma dire cool ormai fa molto 2012, quindi non fatelo), bisogna citare almeno 4 fra i seguenti termini: mainstream, matericità, fabionovembre, concettospaziale, mainstream, openingparty, lineefluide, integrazione, mainstream, contaminazione, installazione, lightdesign, creativo, vernissage, inaugurazione e mainstream.
Anche a caso. Anche ripetendoli. Mainstream. Ecco.

Invece, pur avendo i capelli perfetti, ieri non sono riuscita a partecipare al workshop di Cinzia Felicetti, Direttore di Marie Claire Maison, che si è tenuto allo Spazio Verger di via Varese 1.
Il titolo del mini-workshop è Vivere a colori - Dal guardaroba all'arredo, come scegliere la propria palette ideale. Perché, anche in casa, l'eleganza è una questione di sfumature.
Praticamente il mio mantra espresso in forma chic e senza parolacce.

Mannaggia a me, al mio lavoro e alle improrogabili urgenze dell'ultimo minuto - clienti adorati, sì, dico a voi, io vi odio! Insomma, non ce l'ho fatta.
E mi spiace, perché se è vero (e io ci credo) che "il colore rappresenta un'arma a doppio taglio, sia nell'abbigliamento che nell'arredo", io quell'arma la voglio maneggiare come Beatrix Kiddo con la sua katana di Hattori Hanzo.


Non sono bionda, non ho gli occhi azzurri e il giallo non mi dona; a parte questo potrei essere lei

Per capirci: ho vissuto i primi 12 mesi della mia vita in una casa in cui non ho mai più rimesso piede; eppure ho distinti ricordi di un divano marrone (un solido pantone 440) e del rosso aranciato dei pavimenti in cotto. I miei genitori peraltro confermano tutto.

Quando mi sono trasferita a Milano per frequentare l'Università, ho letteralmente ricoperto il mio appartamento da studentessa di roba verde: pareti, porte, mobili della cucina, persino i pavimenti. Forse nella grande città mi mancavano i prati di casa, vai a sapere.

Poco dopo mi sono trasferita in un paesino poco distante, per amore. Casa anonima, da ragazzina che gioca a fare la mogliettina frustrata. Qui ho imparato che nella vita si può essere anonimi. Che io posso essere anonima. E che non mi piace. L'amore di provincia non ha funzionato.
Di nuovo Milano, nella casa della prateria verde.

Poi l'amore, di nuovo, e allora un'altra casa, perché le case sono fasi della vita, proprio come i colori. Una casa bianca e beige. In questa casa mi sono innamorata delle cucine bianche, del Corian e del touche de rouge che da quel momento mi ha sempre accompagnata, sottoforma di quadro alle pareti, di una poltrona color fragola o di una stanza intera.

Poi un'altra casa, bellissima, finalmente spaziosa, con un'ampia zona giorno (non riesco a non pronunciare queste parole senza imitare la voce della Paola Marella - ciao Paola ciao!). Lì ho imparato ad amare le linee minimaliste, il bianco e il grigio. Col passare del tempo, è stata sempre più grigia.
Questa è stata la casa dei muri storti e di tutto storto.

La casa della rinascita era un mini-appartamento in una casa di ringhiera, che pur non essendo mia ho personalizzato fino al midollo, quasi senza accorgermene. Il bagno era troppo blu e aveva bisogno di leggerezza trasparente. Il salotto era troppo bianco, e quel divano troppo scomodo per essere anche bianco, così (grazie a Santa Ikea, la protettrice degli indecisi) ho cambiato le fodere, aggiunto qualche cuscino in nuance, piazzato libri di arte, foto e viaggi disponendoli in modo che risaltassero i colori delle copertine. Risultato: il parquet d'epoca finalmente chiacchierava amabilmente con l'ecrù del divano, e i cuscini erano in tinta con le tazzine da tè che avevo acquistato per i miei momenti di brama incontrollabile di latte parzialmente scremato
(mi pare evidente che non sono un'amante dei colorini, tipo il lilla, l'arancione - aborro l'arancione - il verdino, l'azzurrino...)
L'atmosfera d'epoca, il color rovere del parquet e il verde delle piante in cortile sono stati il mio guscio per molti mesi; invece di svegliarmi morta, come temevo, mi sono ritrovata a ridere come una folle, nuda, su quel divano ecrù.

Mi siccome le case sono fasi, ho voluto abbandonare il guscio. La casa con le scale e il camino, due elementi che ho sempre desiderato fortemente fin da piccola, perché tutti i miei cugini abitavano in case con scale e camini e io no, è stata quella davvero di passaggio. Quella della progettazione. Quella degli scatoloni svuotati a metà, dei weekend altrove. Un caleidoscopio di colori caldi, il parquet in wengè, il marmo bianco nella cucina a vista e le mensole di cristallo sembravano aspettare il freddo dell'inverno per fondersi insieme alle fiamme del camino. Qui ho imparato che la camera da letto in mansarda è meravigliosa, ma se ti dimentichi la bottiglia d'acqua e ti viene sete saresti disposto a vendere un rene pur di fartela portare.

E ora, la fase attuale, quella dell'esplosione.
Una casa tostissima, che vince sempre lei. Che ha talmente tanta personalità che banalizzarla è un attimo. Che richiede attenzione, delicatezza e decisione. Che - per la prima volta - è davvero colorata: grigia, verde, blu e rossa. Follemente e inesorabilmente rossa.

E io avrei tanto voluto partecipare a quel workshop ieri.
Nessuno che ci sia andato e abbia preso appunti? Un paio di ripetizioni? No?



sabato 30 marzo 2013

Di pagine bianche e pareti vuote

Vivo in questa casa da poco più di un anno, eppure non la considero finita, c'è ancora molto da fare, da creare, da aggiungere.
Una delle cose che ho proprio lasciato per ultima, e che per qualche motivo continuo a rimandare, è l'arredamento delle pareti.
In particolare, vorrei cominciare dallo studio, che è una delle mie stanze preferite.
Innanzitutto perché è rossa, di un rosso che ho fortemente desiderato e voluto (e ovviamente ottenuto). Secondo me una donna dovrebbe sempre avere almeno una stanza rossa nella propria casa, per una serie di ottime ragioni.
La stanza è rettangolare, con parquet originale di inizio Novecento, una bella finestra ampia e luminosa e  tende bianche e leggere che toccano abbondantemente il pavimento.
L'arredamento è molto essenziale: divano letto (quello che si apre chiudendoti dentro, mannaggia a me), piccola libreria, scrivania davanti alla finestra. Tutto bianco. E una sedia Louis Ghost di Kartell, trasparente cristallo.

Una delle pareti è - ancora- completamente vuota. Eccola.



L'idea è quella di riempirla di foto incorniciate. Le foto avranno tutte lo stesso tema (che ho ben chiaro in mente) e le cornici dovranno avere dimensioni e stili diversi, ma tutte rigorosamente bianche.
Ne ho già prese alcune all'Ikea, di varie misure, per vedere un po' che effetto potessero fare


Nel frattempo, con la scusa di dover selezionare le fotografie, continuo a rimandare.
Perché una volta cominciato il lavoro, ovvero piantati i chiodi per appendere le cornici, non si torna indietro.
La realizzazione dei colori di casa è un argomento simpatico e terrificante su cui tornerò più avanti; basti sapere che l'idea di sbagliare, di dover ridipingere, ricreare il colore, sistemare qualcosa mi terrorizza.

Per cercare di chiarirmi le idee e agevolare l'ispirazione, ho cercato in rete un po' di immagini, che ho catalogato nel mio board "Hot or Not" su Pinterest





Ma adesso: come si affronta la disposizione delle cornici? Tutte allineate o sfalsate? Su tutta la parete o solo su una parte? Tante o poche? (quante sono tante e quante sono poche?) Solo su una parete o anche su quella opposta, parzialmente occupata dalla libreria e dal divano?

Temo che il rosso dominerà ancora per molto, molto tempo...

lunedì 25 marzo 2013

L'unione fa la forza. O no.

Wikipedia mi informa che: "Comunemente si associa all'interior designer una figura più simile ad uno stilista d'interni, ma in realtà il designer presta particolare attenzione agli aspetti pratici e funzionali del vivere la casa [ad esempio, eccetera eccetera...]".

Io, di mio, avevo questa cosa che mi fidavo poco. 
Che tanto son tutti lì a fregarmi, e chissà cosa ci vuole, e insomma posso fare io.
Mi sono trovata a gestire delle ristrutturazioni da sola.
LA LUNA NERA.
Quindi.
A meno che siate degli esperti (e -chiaramente- dal mio nome capirete bene che non solo io NON lo sono, ma graziaddio non mi sono mia considerata tale), evitatelo. Come la peste. Come gli uomini coi calzini bianchi. Come le vacanze con la suocera*. Come il formaggio sul branzino.
NO, NO e NO.

Intendiamoci, non sto parlando di arredamento, di disposizione degli elementi d'arredo, di gusto nelle scelte. Quella è la parte divertente e chi si affida a un professionista io non lo capisco, ma del resto io non capisco nemmeno quelli che usano i wedding planner, che mi fa ridere solo a pensarci.
No: io parlo di un vero e proprio lavoro di interpretazionetraduzione e mediazione. Come con chi!? Con quell'agglomerato di persone che, dal momento dell'assunzione dell'incarico al giorno in cui metterete piede nella vostra casa, sfiniti come dopo una retata in Monte Napoleone il primo giorno di saldi, saranno l'oggetto delle vostre sedute dallo psicanalista padroni assoluti dei vostri soldi, del vostro tempo, dei vostri nervi: l'impresa edile, per gli amici L'IMPRESA.

Già il nome pare foriero di cose buone: impresa, imprendere, intraprendere, FARE.
E poi è un nome collettivo, cioè l'impresa è una, ma di fatto è una squadra di persone che insieme rappresentano tutte le competenze, le expertise e le abilità che ti servono: muratore, gessista, imbianchino, falegname, parquettista, tutti! E tutti lì per te, per la tua casa, un team di persone che sanno quello che fanno e grazie alle quali non dovrai più (pre)occuparti di nulla!

Evviva! Champagne per tutti che festeggiamo.

Wroooong!

Assioma: se fino alla firma del contratto era tutto un parlare di muri, impianti elettrici, scarichi, parquet e attacchi del gas (ce la posso fare), non appena l'impresa comincia a lavorare scopri un idioma che ti sembra abbia qualche assonanza con lo swahili, di certo non con l'italiano (con la differenza che almeno in Kenya potevi farti capire a gesti).
All'improvviso sono all'ordine del giorno frasi tipo "eh, qui si pensava di risolvere il disallineamento della soletta con un carotaggio per la guaina di impermeabilizzazione e ç°Xç§>ççDSX;§A§àòsz++*ZéX__X:::" (eh?!?) "...quindi signora decida lei, se preferisce che agiamo con °çXSçDS%&%£$ oppure attraverso la tecnica del ?=)()=ç°§ç°S@#@#@[, che però le costa un pò di più ma probabilmente è più sicura".
Eh?! Chi? Io? EH?!?
"Sì, insomma, possiamo portarle il tubo dell'acqua nell'altra stanza, ma poi @#))0'sxd;d's e la pendenza dell'1,8% potrebbe non essere sufficiente e #[]]@°òSàòLFDàS..."
"QUINDI?!?!?"
"Quindi la lavatrice possiamo metterla, ma magari è un pò in pendenza"
"Che cazzo me ne frega, ci metto sotto un tassello e bon Va bene, procedete"

Postulato: tutto ciò che non è esplicitamente previsto dal contratto, non è dovuto. E guai a considerarlo sottinteso. Per esempio, qualcuno dovrebbe dirvelo che se nel capitolato non è specificato l' "obbligo di squadra" significa che vi possono consegnare una casa con i muri storti. Almeno avvisami, diamine.
Che io avrei anche pagato qualcosa in più per avere i muri dritti, quella volta di 7 anni fa, in cui alla fine ho abitato per due anni un una casa meravigliosa. Coi muri storti.

Teoria: se assumi un interprete, non hai problemi. Cioè un architetto. Una persona fidata, che capisca quel che vuoi tu e lo traduca all'impresa; che quando ci sono degli imprevisti sappia valutarne l'entità e proporti soluzioni, senza gettarti nel panico. Che ti suggerisca alternative valide e funzionali, quando ti impunti su qualcosa di stupido e batti i piedi come quella volta che a quattro anni non ti hanno fatto fare il 42esimo giro in giostra.
Tanto io fra il pratico  e il bello scelgo sempre il bello. Con me è facile, ho il cervello biondo, ok, passiamo oltre.
Dalla mia modestissima ma piuttosto variegata esperienza, posso dire che l'Amico Architetto funziona bene. Dai, che ce l'abbiamo tutti un Amico Architetto.
L'importante è essere molto chiari sui servizi che desiderate, e su quelli a cui non siete interessati. Nel mio caso: tieni i rapporti con l'ìmpresa, supervisiona i lavori, consigliami dei fornitori che non mi svenino più di quanto l'impresa stia già facendo, dòtati di poteri telepatici e suggeriscimi sempre e solo quel che mi piace. No, non voglio un designer, le idee sulla disposizione dell'arredamento ce le ho chiare da me, thank you very much.

Cosa ha funzionato: ingaggiare l'Architetto donna con il fisico da Sailor Moon e due tette spaziali. L'impresa ha sempre rigato dritto (a parte la questione dei muri storti, ma è una lunga storia e obiettivamente non era colpa dell'amica)
Cosa non ha funzionato: il 2x1, due amici con competenze leggermente diverse che lavorano ENTRAMBI per la stessa causa, che poi è casa tua. Risultato: io ho una casa meravigliosa, frutto della competenza di non uno, ma due ottimi professionisti. Loro non si rivolgono più la parola da oltre un anno.




*il prossimo weekend vado in vacanza con la suocera. Certe cose non le imparo mai abbastanza.


domenica 17 marzo 2013

L'incomincio

L'inizio è sempre un pò difficile per tutti.
C'è chi ha il blocco dello scrittore, chi soffre di panico da pagina bianca, io sono soggetta all'angoscia da planimetria.
Vedo una piantina e... sbang! Il cervello va in pappa. Io che ho sempre avuto il massimo dei voti in inglese, in latino, in tedesco (solo perchè non ho fatto il classico, altrimenti avrei avuto 9 anche in greco, ne sono certa) non so codificare questa lingua fatta di linee che misteriosamente s'intersecano e ti raccontano dove stai per trascorrere, se non il resto dei tuoi giorni, quanto meno un bel pò di tempo.
Capite l'importanza, insomma.
Appunto.
Originale

mia felice interpretazione


Possibilità di sbagliare? Millemila.
Eventualità di fare una cazzata? A pacchi.
Probabilità di acquistare quel divano meraviglioso che starebbe così bene in salotto, e passare la tua esistenza a scavalcarlo per potertici sedere, perchè è decisamente troppo grande? Infinite.

Data l'ansia che sta cosa mi provoca, devo dire che nel corso dei miei vari spostamenti e traslochi ho preso appunti. E qualcosa ho imparato.

Vediamo i 3 must-have della brava Arredatrice (non Ignorante come la sottoscritta):
. indipendentemente dalle dimensioni dell'appartamento e dalla scala della planimetria, le stanze sulla piantina sembrano sempre più piccole di quel che sono realmente. Fate sempre attenzione a riportare correttamente le misure di qualsiasi cosa, ma se sulla piantina ci sta: fidatevi. La piantina non sbaglia. La piantina è Dio.
. attenzione agli ingombri degli elementi strutturali. Quei mezzi cerchietti che l'architetto riporta sui vostri insulsi pezzettini di carta non sono vezzi, bensì porte che si aprono. E possibilmente dovrebbero richiudersi.
Ergo, se comprate un divano letto, calcolatene bene le dimensioni: se da aperto impedisce a una porta di aprirsi o chiudersi, no, non va bene.
(Indovinate chi ha un divano letto che se lo apri poi non esci dalla stanza a meno che tu non sia bidimensionale? Esatto. Io i miei ospiti li muro vivi. E se durante la notte gli scappa la pipì, sono fottuti)
.impianto elettrico, ovvero prese, interruttori e punti luce. Pare una cosa banale, ma individuarli e interpretarli correttamente sulle planimetrie è impresa assai ardua.
Si presentano così

ma a voi sembrerà piuttosto di trovarvi davanti a una cosa del genere


Se da bambini facevate parte dei boy scout o se, come me, alle elementari organizzavate la caccia al tesoro per il vostro compleanno, siete decisamente avvantaggiati.
Non fatevi ingannare dalla presunta piacevolezza dell'operazione. Non cedete alla stanchezza, alla noia, alla distrazione. Munitevi di MySky e l'ultimo episodio di Grey's Anatomy registratelo e guardatevelo un'altra volta.
L'impianto elettrico si affronta con concentrazione, dedizione e assoluta abnegazione.
Oppure vi ritroverete a dover pigiare l'interruttore in cucina per accendere le luci del bagno. E sarà così snervante che finirete per mettervi il mascara specchiandovi nello scolapiatti.

QUESTO maiale blu. Lo adoro.


venerdì 15 marzo 2013

Faccio cose, vedo case

Chiariamo subito: non sono un'arredatrice, un'interior designer, una wannabe home blogger.
Non sono un architetto(...tettA?) ne' lavoro nel settore. Manco vicina al settore. Tutt'altro.
Insomma, io di progettazioni, ristrutturazioni, DIA e arredamento, in fondo, non ci capisco una fava.
Pero' a me le case piacciono.
Per una serie di motivi, ne ho abitate tante. E ho odiato con ostinata coerenza ogni singolo istante del periodo in cui ancora non ci vivi ma "la fai".
C'e' gente che quando vede una piantina gia' si immagina l'arredamento. Io vedo un pezzo di carta. Non riesco a immaginarmi nulla se non settimane di rotture di balle. Per dire.
Le relazioni con le varie maestranze (si' perche' si chiama "l'impresa" ma si scopre presto che alla fine si parla con 72 persone diverse, ognuna con la sua micro-competenza) le affronto come una punizione divina.
Per non parlare dei giri in brianza per fare scouting di letti e divani.
E la cucina su misura? E dove facciamo le tracce per l'impianto elettrico? E l'idraulico che sbaglia lo scarico? E il muratore che ti mura la cassaforte? E i colori? Di che cavolo di colori le facciamo ste stanze?
E le luci, l'arredamento, ma-questo-con-questo-fa-schifo-o-sara'-radical-chic?
Ma perche' devo avere gli armadi? Non si puo' trovare un'altra soluzione per i miei quattro stracci?
La fatica, proprio.
E quando stai per finire tutto, cominci a realizzare che devi ancora affrontare la prova suprema, il girone infernale dal quale molti non sono usciti vivi: il TRASLOCO.
Niente, sono stremata al solo scriverlo.
Eh, ma allora?
Allora, dopo una quindicina di traslochi, io sta cosa della casa comincio ad amarla.
E' una sorta di sadica perversione, credo.
Provo piacere nel guardare un angolo della casa vuoto, nel non sapere che diavolo ci mettero', pregusto il momento in cui all'improvviso avverra' il colpo di fulmine. Quando lo vedi, lo tocchi, lo brami, e non c'e' scampo, quando succede sai che e' lui e lo devi avere a tutti i costi, e' il tuo oggetto del desiderio che ancora non sapevi di desiderare.
A volte e' un maiale blu.